quasi come in radio…

1977…

Non so come vengano tradotti questi post, sicuramente o avete degli ottimi strumenti per il translate o c’è più gente di quanto pensi che conosce l’italiano. Perchè io utilizzo spesso forme gergali, giochi di parole e fraseologie spesso difficili nella stessa lingua italiana. Mah! Un giorno lo capirò, per adesso ringrazio tutti quelli che scrivono e commentano sulla base di quello che racconto. Ancora una volta un riferimento al mio vecchio amore, la radio, è inevitabile.
Anche allora , nell’interscambio di argomenti (allora mediante telefonate o posta non certo elettronica…) ogni tanto avevo la sensazione di essere frainteso, così come spesso mischiavo parole creandone di nuove…
La vera forza della radio rispetto alla tv è propio quello di generare immagini proprie nella singola immaginazione di chi ascolta, sulla base di quello che dici. Cosa che la televisione impone, lasciando poco spazio all’immaginazione.
Il web scritto (come i libri e le pubblicazioni in generale) lascia spazio all’immaginazione: al massimo ad instradare la fantasia ci può essere un’immagine, una foto, una clip. Ma l’importante è quello che viene letto…

I can’t complain…. non mi posso lamentare…

Mou and me…

Nel passaggio da sito tradizionale a blog, mi aspettavo che il trend rimanesse lo stesso: amici e “semplici conoscenti…” (Cit. fumetto Sturmtruppen) e poco altro. Invece partecipano molte persone, mischiate a chi fa e-commerce (quelli non mancano mai), con commenti di ogni genere, segno di eterogeneità nella provenienza e tipologia. Insomma, un pò di tutto…
Non mi dispiace la cosa , e mi ricorda un poco gli ascoltatori di quando condividevo idee e musica, invece che sul web in radio. La cosa era ancora più semplice perchè alla mattina presto ( quella era la collocazione dei miei programmi) eravamo tutti “scollegati”, io e gli ascoltatori. A quell’ora non hai ancora alzato le difese della normalità e si dicevano tante cose che più tardi potevano essere sentite e ascoltate in modo diverso. Il pubblico andava da chi si alzava presto per lavoro o per impegni familiari a chi finiva lavori notturni e quindi più disponibili ad ascoltare ogni genere di cosa trattata. E la cosa bella era che, in tempi in cui la condivisione non era ancora di moda ( il web negli anni 70-80 doveva ancora nascere) la radio privata era l’unico modo di interagire con la gente e funzionava.
Ad essere ancora più sincero, se le radio non si fossero trasformate nell’ennesimo modo di fare business, la tentazione di rimettermi dietro un microfono, l’ho avuta più di una volta.
C’è più immediatezza, è meno macchinoso dello stare dietro una tastiera, stante il fatto che i sistemi di dettatura vocale difficilmente colgono i giochi di parole: i calembours o come li chiamavo io “i Camembert”. Anche gli ascoltatori a volte, ma poi capiscono e magari sorridono… Tanto, se non fai radio in tv (altra contraddizione che capisco poco) chi si accorge che c’è un sessantenne dall’altro lato delle casse acustiche?
A proposito di quelli che parlano facendosi guardare in tv, faccio un invito: andatevi a guardare ” Un peu d’amour, d’amitiè et beaucaup de musique”, condotta da Jocelyn e Sophie su Tele Montecarlo dal ’74 al 1980 oltre che da Awanagana e Liliana. Quella è la trasmissione che ha creato il format e, secondo me rimane insuperata, per leggerezza e comunicativa.
Ma non lamentiamoci, il peggio è un’altra cosa…

QUI DENTRO (3)

Camere da letto e cucina…

In realtà bisognerebbe, più che di queste tre camere, fare un piano sequenza di tutto il palazzo, comprese cantine, scale, cortili, abbaini e piccoli locali dislocati un pò ovunque nella casa. Questo è stato nel vero senso della parola la mia casa, il mio parco giochi, il mio mondo quando tornavo da scuola. Ero l’unico bambino nell’arco dell’isolato, di questo ero sicuro: non c’erano molte persone già allora che abitavano in Via Montenapoleone (anche se sicuramente più di adesso). Quindi per non annoiarmi dovevo dare fondo alla fantasia e sfruttare questo micro-macro mondo che avevo a disposizione.
E che mondo: La casa era composta da quattro ali principali e tre secondarie: quella più antica era quella nella fotografia ed era del XIV° secolo, un ex convento con relative segrete dove, piccolo esploratore con pila, mi inventavo avventure in mezzo a porte di legno ammuffito, vecchi bauli e oggetti che adesso, in tempo di antiquariato/modernariato farebbero la felicità di molte persone… Originariamente per accedere a casa nostra c’era una sola scala che si vedeva essere stata costruita in due tempi, fino al primo piano con una larghezza e un’altezza differente dei gradini (si lo so, si chiamano alzata e pedata…) mentre dal primo al secondo, più recente in un neoclassico del Canova in marmo più pregiato, si arrivava al nostro ingresso.
La caratteristica peculiare di quella scala era che non finiva al nostro piano, ma era coronata da una cupola che, ricordo nella mia infanzia, essere grigia, fino al momento in cui venne “ripulita” da quel grigio scoprendo degli affreschi sopravvissuti ai bombardamenti dell’ultima guerra.
Un altro ricordo d’infanzia era l’atrio delle scale con un soffitto a cassettoni che precedeva quelle scale che facevo centinaia di volte di corsa, su e giù, spessissimo. La seconda scala, guardando la facciata della casa, sul lato sinistro era più recente e apparteneva al corpo dell’ala sinistra del palazzo. Non era originariamente collegata con la casa: questo avvenne successivamente con l’inserimento di un “modernissimo” ascensore e con l’eliminazione di un bagno trasformato poi nella scala di collegamento con il pianerottolo dell’ascensore.

Un campo un pò più largo…

Il cortile con colonne neoclassicheggianti veniva usato come posto auto per noi pochi inquilini del palazzo e, sulla sinistra c’era un ingresso per una corte più piccola, appartenente al corpo di una delle due ali settecentesche dove lì normalmente finivano le biciclette…
In tutto e per tutto un palazzo come tanti a Milano e in Italia: la differenza era dove si trovava… e sopratutto la differenza era che ci ero nato e cresciuto, era la mia casa… (continua-3)

Non so… non e’ facile

oggi è così..

Esci con cagnone appresso, in macchina per fare qualche commissione a pochi chilometri di distanza e immediatamente ti ritrovi immobilizzato nel traffico. Quaranta minuti ad andare e altrettanti a tornare per un totale di sei chilometri sei… Mou in visibile disagio nonostante i finestrini aperti e il sottoscritto che sacramenta il sacramentabile. Poi si torna a casa dopo un tentativo di passeggiata defaticante per il quattro zampe, tentativo finito male perchè dopo aver fatto l’indispensabile (leggi solido e liquido…) non c’è verso di rimanere in giro… Messomi al computer scopro che il casino che c’è sulla strada è in conseguenza di un poveraccio morto investito dal treno in prossimità di Arcore. Non si sanno ancora le dinamiche ma tutto è bloccato. Quindi alè tutti i pendolari che si appoggiavano alla stazione del paese a spostarsi in quelle vicine: Villasanta e Monza con relativi ingolfamenti di parcheggi e di traffico. E qui scattano i sensi di colpa, perché mentre si era tutti assieme in coda sulle strade i pensieri non erano certo positivi e di comprensione… Da qui un tentativo di revisione del modo di affrontare le cose: uno psicanalista di mia conoscenza mi diceva che le emozioni vanno scaricate e non trattenute. Il mio senso di colpa nei confronti del poveretto che è finito sotto il treno invece mi dice il contrario. E’ vero che le reazioni sono spesso figlie dell’immediato e altrettanto spesso non conosciamo le cause prima di partire in quarta, però .. Non so… non è facile.

PIù IN ALTO…

una laboriosa salita…

Le piccole grandi cose… Una parola gentile di qualcuno, uno sguardo complice del tuo cane, il sentire vicina una persona cara. Tutte cose che a piccole dosi ti rimettono in pista e (un pò) in pace con il mondo, e soprattutto bilanciano l’enormità di altre cose che normalmente non solo non ti mettono di buon umore ma ti ribaltano l’animo. In realtà basta poco, soprattutto deve dipendere da noi: come in tutte le cose deve partire dalla disponibilità d’animo, dalla voglia di farlo. Un pò come per gli stati di esaurimento, stress, depressione: i medicinali servono per spezzare “la catena” della negatività, ma poi il resto deve venire da dentro. Chi l’ha vissuto, lo sa: l’ipocondria, le crisi di panico e simili, si vincono da dentro. Così come siamo noi stessi ad accumulare i sintomi, dobbiamo essere noi a tirarcene fuori. Se sono problemi reali si affrontano come quelli immaginari: anzi, una volta individuati, secondo me, sono proprio questi ultimi ad essere più facilmente risolti. Perchè il nemico lo conosciamo benissimo, come lui conosce noi: siamo noi stessi, quindi lo possiamo fregare… Mi sto rendendo conto di scrivere come parlavo quando ero davanti ad un microfono in radio : di palo in frasca saltabeccando tra un argomento e l’altro. Forse è per quello che la radio è il periodo che tuttora rimpiango maggiormente. Anche adesso parlo ad un microfono… però rompo le scatole solo a chi parlo nell’intercom: cameraman, rvm, assistenti, audio e chi c’è in quel momento… Poveri loro…

regia studio 6 Sky