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Un po’ di passato…Tanto per cambiare

Palazzo Bagatti Valsecchi , per un decennio sede dell’Atelier Fercioni

Non c’è niente da fare: quando vado a lavorare a Milano e soprattutto in centro, non riesco a fare a meno di farmi del male. Precedentemente avevo scritto della mia casa, come l’avevo vissuta e le cose che da bambino ci facevo. Ora mi sono spostato di poche centinaia di metri e sono andato dove : a) ho frequentato le scuole elementari. b) L’Atelier Fercioni ha avuto la sua ultima sede. In pratica mi sono spostato da via Montenapoleone a via S.Spirito, una sua trasversale. Negli anni successivi alla scomparsa di mio nonno Giovanni Tranquillo, cioè nei primi anni ’60, l’Atelier viene trasferito da Corso Matteotti al 2 al Palazzo Bagatti Valsecchi in via Santo Spirito al 7. La foto è di questi giorni, ripulito, restaurato e rimesso nelle condizioni originali.

Il portone nel 1970

Di fianco all’ingresso, alla destra, per qualche anno c’è stata anche una boutique, dalla quale si poteva accedere al piano superiore dove c’era l’Atelier mediante una scala a chiocciola.

Questo era il posto dove si trovava la boutique.

La scuola “Luigi Rossari”, era una cinquantina di metri più avanti, verso via della Spiga, ma non l’ho fotografata, non so perchè. Come vedete , oggi siamo sul didascalico. Capita. Mi rifarò prossimamente.

STAGIONOPATICO

Il Castello Sforzesco dal Duomo di Milano

Ho barato, lo ammetto! Queste sono foto di dieci anni fa, quando la skyline di Milano era ancora come quando ero giovane. Non c’erano ancora i nuovi grattacieli, il quartiere Isola era ancora l’unico sopravvissuto alle bombe alleate, piazza Gae Aulenti era ancora di là da venire, la zona del Portello era ancora quella della vecchia Fiera di Milano o quasi e s’intravedeva appena appena il cantiere del nuovo palazzo della Regione Lombardia.

Il Pirellone e la Torre Breda

Allora, se dovevi rappresentare Milano in sintesi, avresti messo il Duomo, il teatro della Scala, il castello Sforzesco, la torre Velasca, La Basilica di Sant’Ambrogio, le Colonne di san Lorenzo, la Galleria e il grattacielo Pirelli. Ma stava per cambiare tutto in previsione dell’Expo che avrebbe portato milioni di visite nel 2015. Stavano per partire (alcuni lo erano già) cantieri ovunque, per la gioia degli ùmarell milanesi ( nota per i non lombardi: gli ùmarell sono gli anziani che si mettono a guardare e commentare i cantieri…) . Intendiamoci, Milano, dal punto di vista architettonico, anche adesso è bellissima, ma la mia Milano, quella che ho vissuto da ragazzo, mi piaceva di più. Forse meno internazionale, sicuramente più grigia a causa dello smog e della nebbia che si spingeva fino in centro, ma con delle atmosfere che ora non ci sono più. Era una città da fotografare in bianco e nero e con tutte le sfumature di grigio: da qualche parte devo avere ancora dei negativi di foto scattate sui navigli e nel Parco Sempione in mezzo alla nebbia che raccontavano cos’era Milano. Anche via Montenapoleone, l’attuale quadrilatero della moda, allora aveva tutta la gamma dei grigi a colorarla. I Bus allora lontani dai filtri antiparticolato e i riscaldamenti molto eterogenei aiutavano questa Milano B/W. Molte industrie erano ancora all’interno della città e questo aveva come effetto secondario di abbassare le falde acquifere milanesi e di rendere “milanese” il cielo. Manzoni lo aveva visto prima della rivoluzione industriale e sapeva quanto fosse “… così bello, quando è bello, così splendido, così in pace…” . Infatti ho dei colleghi romani, con i quali c’era a distanza lo scambio di battute sulla querelle Roma-Milano, che quando sono venuti a lavorare a Milano, sono rimasti stupiti dalla bellezza di questa città…

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QUI DENTRO (3)

Camere da letto e cucina…

In realtà bisognerebbe, più che di queste tre camere, fare un piano sequenza di tutto il palazzo, comprese cantine, scale, cortili, abbaini e piccoli locali dislocati un pò ovunque nella casa. Questo è stato nel vero senso della parola la mia casa, il mio parco giochi, il mio mondo quando tornavo da scuola. Ero l’unico bambino nell’arco dell’isolato, di questo ero sicuro: non c’erano molte persone già allora che abitavano in Via Montenapoleone (anche se sicuramente più di adesso). Quindi per non annoiarmi dovevo dare fondo alla fantasia e sfruttare questo micro-macro mondo che avevo a disposizione.
E che mondo: La casa era composta da quattro ali principali e tre secondarie: quella più antica era quella nella fotografia ed era del XIV° secolo, un ex convento con relative segrete dove, piccolo esploratore con pila, mi inventavo avventure in mezzo a porte di legno ammuffito, vecchi bauli e oggetti che adesso, in tempo di antiquariato/modernariato farebbero la felicità di molte persone… Originariamente per accedere a casa nostra c’era una sola scala che si vedeva essere stata costruita in due tempi, fino al primo piano con una larghezza e un’altezza differente dei gradini (si lo so, si chiamano alzata e pedata…) mentre dal primo al secondo, più recente in un neoclassico del Canova in marmo più pregiato, si arrivava al nostro ingresso.
La caratteristica peculiare di quella scala era che non finiva al nostro piano, ma era coronata da una cupola che, ricordo nella mia infanzia, essere grigia, fino al momento in cui venne “ripulita” da quel grigio scoprendo degli affreschi sopravvissuti ai bombardamenti dell’ultima guerra.
Un altro ricordo d’infanzia era l’atrio delle scale con un soffitto a cassettoni che precedeva quelle scale che facevo centinaia di volte di corsa, su e giù, spessissimo. La seconda scala, guardando la facciata della casa, sul lato sinistro era più recente e apparteneva al corpo dell’ala sinistra del palazzo. Non era originariamente collegata con la casa: questo avvenne successivamente con l’inserimento di un “modernissimo” ascensore e con l’eliminazione di un bagno trasformato poi nella scala di collegamento con il pianerottolo dell’ascensore.

Un campo un pò più largo…

Il cortile con colonne neoclassicheggianti veniva usato come posto auto per noi pochi inquilini del palazzo e, sulla sinistra c’era un ingresso per una corte più piccola, appartenente al corpo di una delle due ali settecentesche dove lì normalmente finivano le biciclette…
In tutto e per tutto un palazzo come tanti a Milano e in Italia: la differenza era dove si trovava… e sopratutto la differenza era che ci ero nato e cresciuto, era la mia casa… (continua-3)

Qui dentro…

Via Montenapo al 3

Qui dentro c’è una fetta di vita, la mia. Non la più lunga e nemmeno la più recente, ma sicuramente per formazione, ricordi e creazione del mio (a volte pessimo) carattere, la più significativa. Intanto dovete immaginare questo palazzo com’era più o meno cinquant’anni fa: color carbone a causa dello smog milanese, allora anche visibile, altro che “polveri sottili”, fumo vero, molto londinese. I riscaldamenti a Milano in quegli anni erano molto random: tante case portavano ancora i segni della guerra e sicuramente delle industrie che allora convivevano coi cittadini milanesi all’interno della città, e le case avevano a volte ancora le stufe, oltre ai camini. I vetri, ricordo questo particolare nei miei primi anni di vita, erano ” a ricupero”, cioè andavi dal vetraio e chiedevi cosa c’era oggi, come le specialità del giorno: a volte trasparenti, a volte opaline, a volte bugnati…. Quello che veniva ricuperato. per riempire i telai delle finestre. La casa era enorme, circa trecento metri quadri con soffitti minimo di cinque metri. Infatti uno dei miei divertimenti da bambino era, dopo essermi arrampicato su antichi e altissimi armadi, lanciarmi sui letti sottostanti, per poi prendermi sgridate e sculaccioni dai miei oltre ad essermi fatto male da solo… Altro vantaggio delle dimensioni esagerate della casa era avere la possibilità di correre lungo il lunghissimo corridoio, che era diviso a metà tra zona giorno e notte da una porta a vetri. Porta che mio fratello attraversò (fortunatamente senza danni) in volo dopo essere inciampato mentre stavamo giocando. il lato della casa non inquadrato aveva un balcone lungo e stretto con una ringhiera in ferro battuto che si estendeva per tutta la larghezza della casa e che non ispirava molta sicurezza. Attraverso quest’ultimo entravano i rami di un indistruttibile sassofrasso (o spaccasassi, pianta che sopravviverà al genere umano…) che diventavano parte dei giochi del Fercioni bambino. Tra questi giochi, molto più dispendioso, c’era il lancio del cucchiaino (rigorosamente d’argento, sennò non era divertente). Io, piccolino, mangiucchiavo qualcosa sul terrazzo e una volta finito, buttavo il cucchiaino giù, perchè era molto divertente sentire il rumore che faceva. E piaceva molto anche ad alcune lavoranti della sartoria che c’era al piano terra che lo smaterializzavano prima che mia mamma scendesse al piano terra.

(1-continua)